Arrivederci Cecce!
Venerdì 28 febbraio, nel corso dell'intervallo e di parte del successivo modulo, tutta la comunità scolastica si è raccolta nel cortile per stringersi in un unico grande abbraccio per il nostro Cesare.
Amici, compagni e insegnanti hanno voluto condividere ricordi che resteranno indelebili e salutarlo facendo volare in cielo palloncini azzurri come i suoi grandi occhi sempre sorridenti. Azzurro è stato anche il fumogeno accesso subito dopo, ad accompagnare il rombo di una moto, la grande passione che purtroppo, però, ce l'ha strappato via.
In attesa di pubblicare anche altri contributi, insieme ad altre immagini di questo triste ma doveroso commiato, il corpo insegnanti (su richiesta di molte sue componenti) si unisce al comune dolore condividendo la lettera che un insegnante della classe ha sentito di scrivere al proprio studente e che contiene al suo interno anche una prosa poetica che lo stesso Cesare aveva scritto in occasione di un compito, ma che va ben oltre un semplice compito: custodisce infatti la grande anima, pura e sensibile, del nostro piccolo grande Cesare. Sono parole vere e preziose che questa volta è stato lui a lasciarci come insegnamento insieme al suo inimitabile e indimenticabile sorriso.
Caro Cesare,
Caro Cecce,
se volevi trovare un modo per lasciarmi senza parole potevi cercarne un altro. Un qualsiasi altro, che non fosse proprio questo…
Le parole, anche tu lo sai bene, non mi sono mai mancate. E invece mi vengono a mancare proprio adesso. Proprio adesso in cui a mancarmi sei tu.
E allora questo vuoto, che hai lasciato persino dentro le mie parole, ho bisogno di illudermi di poterlo almeno in parte colmare con le tue di parole.
Anche perché, quando una persona cara ci lascia, la prima cosa di lei, che il Tempo “invidioso” ci strappa via, è il ricordo della sua voce.
Io non voglio dimenticare la tua voce.
Voglio essere io a strapparla al Tempo legandola alle tue parole, perché, come vi ho più volte ripetuto in questi due anni e mezzo, sono le parole a permetterci di sopravvivere alla Morte: il nostro diventare racconto nelle parole e nel ricordo degli altri.
E allora io voglio legare stretta la tua voce alle ultime parole che ti ho rubato: quelle che mi hai rivolto lunedì, al termine della lezione sul canto di Paolo e Francesca, quando stavi uscendo per l’intervallo e dalla cattedra (mentre come al solito armeggiavo distrattamente con cavi e tablet) ho sentito chiaramente un tuo… “arrivederci prof."
Nel chiasso generale quel tuo “arrivederci prof.” è riuscito ad avere in me (e tanto più anche ora continua ad avere) una risonanza particolare. Forse perché, a differenza di quello che può sembrare, quell’”arrivederci prof.” non aveva in sé nulla di scontato, perché proveniva da te che, in passato, eri stato sempre piuttosto sfuggente e avaro di riconoscimenti. E invece quel tuo insolito ”arrivederci prof.” ora aveva proprio il tono di un riconoscimento (da parte di chi, come mi stavi facendo capire a modo tuo, si sentiva a sua volta riconosciuto).
Voglio annodare la tua voce ai versi che hai studiato a memoria come compito questa estate e che, al rientro a settembre, ti ho costretto a recitare di fronte ai tuoi compagni.
Guarda che lo so che hai scelto quella poesia perché era una delle più brevi (anche se non la più breve, e questo te lo riconosco). Ma so bene che, per un avaro di parole, quello è stato già un enorme sforzo.
Hai scelto (o forse a questo punto è stato il destino bastardo a sceglierla per te) la poesia “Soldati” di Giuseppe Ungaretti: «si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie».
Eppure ci bastavano i versi di Ungaretti a ricordarci che, nella trincea della vita, siamo come foglie sugli alberi in autunno. Ci bastava che tu restassi lì con noi, a recitarli.
Perché forse tu non lo sai, mentre io me ne sono accorto, che sotto quella scorza di giovanile spavalderia (che spesso ergi a tua difesa) si nasconde la sensibilità di un poeta!
Immagino benissimo la smorfia che stai facendo in questo momento. Anche se, ancora una volta, ti dimostrerò che ho ragione io.
Voglio infatti ancorare la tua voce alle parole che hai scritto l’anno scorso (come puoi vedere, non solo non le ho dimenticate, ma le ho pure conservate).
Era un esercizio di scrittura creativa: si trattava di descrivere, in maniera soggettiva, un luogo del cuore. E tu hai scelto la tua Genova. Tu hai saputo scrivere queste parole:
Quel mare così scuro che si allunga fino alle coste liguri, lontane, che sembra toccarle.
Il cielo che se tendi il braccio lo puoi afferrare, eppure non sei vicino: sei sempre lontano.
Lo sguardo scende sulle luci della città, la mia città, che mi regala colori straordinari e anche sensazioni di amore e odio.
Guardandola sento dentro di me una tranquillità infinita: trasmette felicità e libertà.
Guardare fino all’orizzonte le luci della città, dà una sensazione di caldo nel cuore.
Osservando il mare mi viene in mente mio papà, quando da piccolino ogni domenica mattina prendeva la barca e mi portava a Camogli a mangiare la focaccia.
Potrei non finire mai di raccontare ogni ricordo perché guardando ogni angolo della mia piccola Genova mi vengono in mente tantissimi ricordi, belli o brutti che siano.
Fa un certo effetto rileggere adesso quelle parole. Adesso che tu sei diventato quelle parole.
Già… perché d’ora in avanti, quando guarderò questo nostro mare “così scuro”, cercherò di immaginarti lì, con tuo papà, su quella barca. E quando vedrò quella barca scomparire dietro all’orizzonte, alzerò lo sguardo verso quel cielo “lontano” al quale, così in fretta, ti sei voluto avvicinare. E quel cielo mi sembrerà ancora più azzurro, adesso che, invidioso pure lui, ci ha rubato via tutto l’azzurro dei tuoi occhi.
E allora, facciamo una cosa… aiutami a vendicarci di quel cielo: quando da lassù mi vedrai “raccontarti”, leggendo per esempio queste tue parole anche agli studenti che verranno, mi raccomando, non avere paura di vergognarti.
Io farò finta di lanciarti un’occhiataccia (come tante volte mi hai già visto fare in classe) e farò finta di non accorgermi di quel grande spettacolo che sarà quando tu, ogni mattina, farai arrossire il cielo.
“Arrivederci Cecce”.
Il tuo prof.
Arrivederci Cecce!




